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C’è qualcosa di affascinante nel vedere un genio abbassare la maschera. David Byrne, l’uomo che ha riscritto il linguaggio della new wave con i Talking Heads, lo ha fatto con disarmante sincerità. In un’intervista recente, ha ammesso:  sapevo cosa volevo, ma non sapevo come ottenerlo in modo collaborativo. E sì, non ero sempre piacevole da avere accanto.”
Una confessione che suona come un autoritratto brutalmente onesto di un artista ossessionato dalla precisione e dalla visione. Un “bossy pants”, come lui stesso si definisce, nel senso più umano e, forse, inevitabile del termine.

Il prezzo della visione

Per chi ha vissuto gli anni d’oro della new wave, i Talking Heads non erano solo una band: erano un’idea. Una forma d’arte viva, pulsante, costruita su un equilibrio precario tra cervello e groove.
Brani come Once in a Lifetime o Psycho Killer nascevano da jam collettive che poi David Byrne scolpiva come un regista. Ogni gesto, ogni luce, ogni voce era parte di un disegno preciso.
Solo che quel disegno, a volte, sapeva essere una gabbia.

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David Byrne oggi lo ammette: nella sua ossessione per la coerenza artistica, la collaborazione finiva spesso per essere sacrificata. Un paradosso per un gruppo che della sinergia creativa aveva fatto la propria forza.

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Leader o tiranno?

Quando un artista ha una visione tanto chiara, la linea che separa la leadership dal controllo totale diventa sottile.
Byrne lo racconta senza difese: non si tratta di ego, ma di incapacità comunicativa. “Sapevo cosa volevo – dice – ma non sapevo come chiederlo”. Dietro quella voce nervosa e gli occhi persi nel vuoto dei video anni ’80, c’era un uomo che cercava la perfezione.

Chris Frantz e Tina Weymouth, la sezione ritmica del gruppo, non l’hanno mai nascosto: lavorare con Byrne significava entrare in un sistema solare dove tutto ruotava intorno alla sua gravità.
Eppure, quella stessa gravità ha tenuto insieme quattro personalità geniali abbastanza a lungo da creare un catalogo che ancora oggi suona come il futuro.

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Il genio che impara a collaborare

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Quarant’anni dopo, David Byrne non è più il ragazzo rigido in giacca oversize che balla in Stop Making Sense. È un artista maturo, capace di guardarsi indietro con ironia e lucidità. Lo si è visto nei suoi progetti più recenti, dal musical American Utopia alle collaborazioni con artisti come St. Vincent.

La differenza? L’apertura. Byrne oggi sembra aver capito che la visione non vale niente se non include le persone che la rendono reale. È un’evoluzione che molti musicisti e produttori conoscono bene: la transizione da “io” a “noi”.

In studio, come sul palco, essere direttivi può dare risultati straordinari – ma la vera magia arriva quando il controllo lascia spazio alla fiducia.

Una lezione per chi crea musica oggi

La confessione di Byrne risuona forte anche nel mondo contemporaneo, dove le dinamiche di band, collettivi e studi di produzione sono più fluide che mai. Chi produce musica elettronica, chi lavora a colonne sonore, chi collabora da remoto con artisti di tutto il mondo, conosce bene la sfida: mantenere la propria identità senza soffocare quella altrui.

In questo senso, Byrne ci regala una lezione di umiltà creativa. Puoi essere un visionario, ma se non riesci a portare le persone con te, la tua visione resta monca. E in fondo, è proprio questa la differenza tra un grande solista e un grande leader.

Il suono della consapevolezza

Riascoltare oggi i Talking Heads, con le parole di Byrne nelle orecchie, è come scoprire un nuovo strato nei brani. Quel ritmo spezzato di Life During Wartime, quella danza disarticolata di Burning Down the House: tutto parla di controllo e libertà che si scontrano e si fondono.
Forse, proprio lì si nasconde la verità: nella tensione tra ordine e caos, tra genio e imperfezione.

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Susanna Staiano
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David Byrne: “Ero un bossy pants nei Talking Heads"
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