Lavorare in studio può sembrare routine per un guitar hero navigato come Neal Schon, abituato a palchi immensi, produzioni internazionali e collaborazioni prestigiose. Eppure, anche le leggende della chitarra hanno i loro momenti di esitazione, specialmente quando dall’altra parte della parete dello studio si trova un mito vivente come Steve Cropper, autore di alcuni dei riff più iconici della storia della musica soul.
L’aneddoto nasce durante la registrazione della versione di Michael Bolton di “(Sittin’ On) The Dock of the Bay”, un brano immenso già al momento della sua uscita nel 1968, ancora più sacro oggi. L’atmosfera era carica di aspettativa: reinterpretare un classico scritto da Otis Redding insieme a Cropper non è un’operazione da prendere alla leggera. E infatti lo stesso Neal Schon confessa: “Ero un po’ nervoso!”.
Questa frase, se pronunciate da un professionista celebrato, racconta più di mille note. È il peso emotivo di un’eredità musicale, l’umiltà davanti alla storia e anche il potere che le figure come Cropper esercitano, ancora oggi, sugli stessi colleghi.
Steve Cropper: molto più di un chitarrista nella stanza accanto
Per Neal, Steve Cropper non era solo un nome leggendario citato sui crediti dei dischi. Era un punto di riferimento musicale, un maestro di quel modo asciutto e incisivo di suonare che aveva definito il linguaggio della Stax Records.
“Green Onions”, “In the Midnight Hour”, “Knock on Wood”: Schon aveva ascoltato quei brani mille volte, studiandone la precisione, il groove, quella capacità unica di dire tantissimo con pochissimo.
Sapere che quell’uomo era lì vicino, mentre lui preparava le sue parti per “The Dock of the Bay”, portò l’intera sessione a un livello emotivo completamente diverso. Neal Schon si ritrovò a percepire la sala come più stretta, come se ogni riflesso sul vetro, ogni ronzio dell’amplificatore ricordasse la presenza ingombrante — ma affascinante — di una vera leggenda vivente. Era come avere la storia stessa del brano in ascolto attivo.
“The Dock of the Bay”: quando reinterpretare un classico diventa una prova personale
Schon aveva sempre affrontato le cover con rispetto, ma reinterpretare “(Sittin’ On) The Dock of the Bay” era un’altra cosa. Quel pezzo era impregnato di malinconia e delicatezza, scritto da Otis Redding nei suoi ultimi giorni e completato proprio da Cropper.
La versione di Bolton richiedeva sensibilità, equilibrio, e Neal lo sapeva. Ogni nota che decideva di aggiungere doveva essere ponderata; ogni fraseggio doveva dialogare con un’eredità più grande, un’eredità che lui stesso aveva interiorizzato.
La presenza di Steve Cropper nella stanza accanto rendeva tutto più intenso.
Neal percepiva la responsabilità come una corrente sottile: si ritrovava a pensare al vibrato da usare, all’attacco delle corde, persino al modo in cui il plettro avrebbe potuto colorare una singola nota. Nulla sembrava casuale. Nulla poteva essere superficiale. Era una pressione invisibile, ma fortissima.
Il confronto silenzioso tra due scuole di chitarra
In quella sessione si incontravano, senza mai scontrarsi, due mondi diversi del linguaggio chitarristico:
- La scuola di Neal Schon, melodica, espressiva, potente, figlia del rock e della fusione tra tecnica e pathos.
- La scuola di Steve Cropper, essenziale, ritmica, chirurgica, fondata sul groove e sulla sottrazione.
Neal avvertiva questo confronto come una forma di stimolo. Pensava al modo in cui Cropper avrebbe potuto percepire le sue scelte: troppo ricche? Troppo rock? Troppo distanti dall’anima del brano?
E allo stesso tempo, sentiva emergere dentro di sé un profondo rispetto: ogni musicista costruisce il proprio stile sulle fondamenta di chi è venuto prima, e quello era uno di quei momenti in cui le fondamenta diventavano persone vere, in carne e ossa.
Quando la vulnerabilità diventa parte del mestiere
Il momento più rivelatore, per Neal Schon, non fu l’ingresso nello studio, né l’inizio della registrazione. Fu la consapevolezza di essere un professionista affermato e, nonostante ciò, provare una forma di emozione quasi adolescenziale, quella che si ha quando si incontra un idolo.
Era una vulnerabilità che non metteva in discussione la sua bravura; anzi, la rendeva più autentica. Neal capì che anche dopo anni di carriera, l’emozione è parte integrante del processo creativo. Non si smette mai di crescere, non si smette mai di misurarsi con chi ha lasciato un segno.
Quella giornata in studio si trasformò in un promemoria potente: la vera grandezza di un musicista sta anche nella sua capacità di riconoscere la grandezza negli altri.
Un dialogo musicale che attraversa il tempo
A distanza di anni, quell’episodio continua a emergere nei ricordi di Neal Schon come uno dei momenti più intensi e formativi della sua carriera. Non perché abbia suonato qualcosa di particolarmente difficile, né perché ci siano stati imprevisti tecnici. Ma perché lì, in quella sala piena di strumenti e cavi, Neal avvertì la forza della tradizione musicale.
La stanza accanto non ospitava solo Steve Cropper: ospitava la storia di un brano che aveva segnato epoche, generazioni e sensibilità diverse. E Neal Schon, nel reinterpretarlo, non si sentiva un semplice chitarrista: si sentiva parte di un dialogo che attraversava il tempo.
Ogni nota diventò un ponte tra due mondi, tra due modi di intendere la chitarra, tra due storie artistiche che per un giorno si erano sfiorate.
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