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A Oakland, in California, una piccola biblioteca indipendente è diventata il simbolo di una nuova rivoluzione musicale. Si chiama Death to Spotify, ed è un movimento nato dal basso per invitare artisti e ascoltatori a ripensare il loro rapporto con le piattaforme di streaming e con l’algoritmo che domina il modo in cui scopriamo nuova musica.
Negli ultimi mesi, una serie di talk e incontri sold out al Bathers Library ha acceso il dibattito: “Che cosa significa decentralizzare la musica dalla logica del profitto e delle major?” La domanda è semplice, ma la risposta è tutt’altro che banale.

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Dal malcontento al movimento

Da anni i musicisti indipendenti denunciano le payout ridicole di Spotify: una manciata di centesimi per migliaia di ascolti. Ma ora la protesta si è trasformata in qualcosa di più ampio, quasi politico.

A dare la scintilla è stato il libro Mood Machine della giornalista Liz Pelly, che accusa Spotify di aver “trasformato gli ascoltatori in consumatori passivi” e di favorire la produzione di “musica da sottofondo”, pensata per non disturbare. In parallelo, la notizia degli investimenti del cofondatore Daniel Ek in tecnologie militari AI ha fatto esplodere l’indignazione.

Da Massive Attack a King Gizzard & the Lizard Wizard, da Deerhoof ai Downtown Boys, sempre più band hanno scelto di togliere i loro brani dalla piattaforma, puntando il dito contro un modello economico che, a detta loro, “svuota la musica di significato”.

“Giù le mani dalla musica algoritmica”

A Oakland, Stephanie Dukich e Manasa Karthikeyan, due appassionate di suono e cultura indipendente, hanno dato forma a un’idea: creare uno spazio per parlare apertamente di musica, tecnologia e libertà creativa.“Spotify è intrecciato con il modo in cui viviamo la musica,” racconta Dukich. “Volevamo capire cosa significhi davvero staccarsi da questo sistema – anche solo imparando a cancellare i nostri file e a condividere musica in modo più diretto.”

Il loro motto? Down with algorithmic listening, down with royalty theft, down with AI-generated music.

Un manifesto semplice, ma potente: dire no a un sistema che appiattisce l’esperienza d’ascolto e invita tutti – non solo i musicisti – a prendersi la responsabilità del proprio modo di ascoltare.

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Boicottare Spotify: missione impossibile o futuro sostenibile?

Certo, boicottare Spotify non è semplice. Anche artisti del calibro di Taylor Swift, Thom Yorke o Neil Young in passato avevano rimosso la loro musica in segno di protesta, salvo poi tornare indietro. Il problema non è solo economico, ma anche culturale: Spotify è diventato l’equivalente musicale di Google, un punto di accesso quasi inevitabile.

Eppure, la nuova ondata di boicottaggi sembra diversa. Secondo Eric Drott, professore di musica all’Università del Texas, “questa volta i protagonisti non sono le star, ma i piccoli artisti, che non vedono più nello streaming un vantaggio reale”.

Il frontman di Hotline TNT, Will Anderson, non ha dubbi: “C’è lo 0% di possibilità che torneremo su Spotify. Il suo obiettivo è farti smettere di pensare a ciò che stai ascoltando.” Quando la band ha pubblicato il nuovo disco Raspberry Moon su Bandcamp e tramite un live su Twitch, ha venduto centinaia di copie e guadagnato migliaia di dollari – dimostrando che un modello alternativo è possibile.

Le alternative ci sono – ma richiedono coraggio

Anche artisti come Caroline Rose stanno sperimentando nuove strade. Il suo ultimo album Year of the Slug è uscito solo su vinile e Bandcamp, rifiutando completamente lo streaming.“È assurdo mettere online gratis qualcosa su cui hai lavorato per anni,” spiega Rose.

Molti di questi artisti fanno parte della Union of Musicians and Allied Workers (UMAW), collettivo nato durante la pandemia per difendere i diritti dei lavoratori della musica. Joey DeFrancesco, co-fondatore dell’associazione, sostiene che i boicottaggi individuali siano utili, ma limitati: “Serve agire collettivamente. Abbiamo ottenuto risultati concreti solo quando ci siamo mossi insieme, come nella campagna per eliminare gli sponsor militari dal South by Southwest.”

Tra le proposte in campo c’è anche il Living Wages for Musicians Act, un disegno di legge promosso dalla deputata Rashida Tlaib per regolamentare i compensi agli artisti sulle piattaforme di streaming.

Rinunciare all’algoritmo per riscoprire la musica

Per i fondatori di Death to Spotify, l’obiettivo non è distruggere la piattaforma, ma recuperare un ascolto più consapevole e umano. “Non vogliamo chiudere Spotify,” spiega Karthikeyan, “ma invitare le persone a pensare davvero a cosa stanno ascoltando e perché. Se ci affidiamo solo agli algoritmi, finiamo per appiattire la cultura.”

E forse è proprio questa la chiave: non si tratta di nostalgia o di rifiuto della tecnologia, ma di riappropriarsi del piacere dell’ascolto, di scegliere cosa sentire senza essere guidati da un algoritmo.

Un gesto piccolo, ma che – come dimostrano gli eventi di Oakland – può trasformarsi in un movimento globale.

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Susanna Staiano
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Artisti indie contro Spotify: nasce Death to Spotify
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