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Il mondo del jazz piange la scomparsa di Jack DeJohnette, uno dei batteristi più innovativi e influenti della storia. Scomparso all’età di 83 anni, DeJohnette ha ridefinito il ruolo della batteria nel jazz moderno, passando con naturalezza dal groove elettrico di Bitches Brew di Miles Davis alle atmosfere intimiste dei suoi lavori da leader. Con la sua tecnica visionaria e la capacità di fondere stili diversi, ha lasciato un segno indelebile nel linguaggio della musica contemporanea.

Le origini di un talento fuori dal comune

Nato a Chicago nel 1942, Jack DeJohnette iniziò a suonare il pianoforte a quattro anni. Il ritmo, però, lo chiamava già da tempo. A vent’anni passò alla batteria, sviluppando uno stile personale che mescolava sensibilità melodica e propulsione ritmica. Quella doppia anima – pianista e batterista insieme – sarebbe diventata la chiave della sua arte: ogni colpo di piatto, ogni rullata, sembravano ragionati come accordi su una tastiera.

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Negli anni ’60 frequentò la vibrante scena jazz di Chicago, poi si trasferì a New York, dove il suo nome iniziò a circolare tra i grandi: Charles Lloyd, Jackie McLean, Abbey Lincoln. Tutti riconoscevano in lui qualcosa di diverso: un batterista che “pensava da musicista”, non da semplice accompagnatore.

L’incontro con Miles Davis e la rivoluzione di Bitches Brew

Il momento decisivo arrivò nel 1969, quando Miles Davis lo chiamò a far parte della sua nuova formazione. Insieme registrarono Bitches Brew, l’album che avrebbe rivoluzionato per sempre il jazz.
DeJohnette non fu solo il “batterista” di quel progetto: fu il motore sonoro che spinse Davis verso territori allora impensabili, unendo groove funk, libertà improvvisativa e atmosfere psichedeliche.

Il suo tocco su Bitches Brew è un perfetto equilibrio di forza e leggerezza: colpi asciutti e spazi sospesi, un continuo dialogo tra ritmo e silenzio. In quelle tracce, la batteria smette di essere accompagnamento e diventa architettura, linguaggio, struttura narrativa.

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Uno stile che ha riscritto le regole

Jack DeJohnette non suonava “contro” il tempo, ma dentro il tempo. La sua tecnica si basava sull’ascolto e sull’interazione: anticipava, reagiva, commentava. Ogni colpo era pensato per far respirare la musica.

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Un batterista come lui non si limitava a mantenere il ritmo: creava paesaggi sonori. L’uso dei piatti per disegnare trame armoniche, la capacità di passare dal minimalismo al caos controllato, l’apertura verso strumenti elettronici e sonorità ambient ne fecero un pioniere della fusione tra generi.

Collaborazioni e carriera da leader

Dopo l’esperienza con Davis, DeJohnette collaborò con alcuni dei più grandi nomi del jazz moderno: Herbie Hancock, Freddie Hubbard, Sonny Rollins, Pat Metheny.
Ma fu con Keith Jarrett e Gary Peacock nel leggendario Standards Trio che trovò un equilibrio perfetto tra introspezione e groove. Quel trio, rimasto attivo per oltre trent’anni, è ancora oggi un riferimento per chiunque studi interplay e sensibilità collettiva.

Parallelamente, DeJohnette pubblicò decine di album da leader, spesso per l’etichetta ECM, esplorando sonorità meditative, spirituali e persino ambientali. In Peace Time, suonando tutti gli strumenti da solo, mostrò come il suo concetto di musica andasse oltre i confini di qualsiasi strumento.

L’eredità di un rivoluzionario

Jack DeJohnette ha cambiato il modo di intendere la batteria. Non era solo ritmo, ma musica totale: pensiero armonico, sensibilità timbrica, capacità di costruire spazi.
Ha ispirato generazioni di batteristi – da Brian Blade a Antonio Sánchez – e rimane un punto di riferimento per chi cerca libertà creativa nel jazz.

Il suo lascito è anche filosofico: per DeJohnette, la musica era un processo spirituale. “Non suono per stupire”, diceva, “suono per connettermi con l’energia che muove tutto”.

Il saluto di una comunità intera

DeJohnette è morto il 26 ottobre 2025 a causa di un’insufficienza cardiaca congestizia. Aveva 83 anni.
La notizia ha commosso la comunità jazz internazionale: colleghi, allievi e fan hanno ricordato non solo il batterista straordinario, ma l’uomo capace di ascoltare profondamente.Chick Corea, Wayne Shorter, Pat Metheny, Jarrett: tutti, in modi diversi, devono qualcosa al suo modo di concepire il tempo e lo spazio nella musica.

Per chi suona, ascoltare DeJohnette significa imparare a respirare con la musica. Ogni suo colpo era un’idea, ogni pausa un’intenzione. Se sei batterista, ascolta come costruiva il crescendo in Miles Runs the Voodoo Down o la delicatezza con cui accompagna Jarrett in Autumn Leaves. E se sei un semplice appassionato, lasciati trasportare dal suo modo di rendere il ritmo un’emozione viva, fluida, imprevedibile.

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Susanna Staiano
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Morto Jack DeJohnette, genio della batteria jazz
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