Ci sono cause che non si ascoltano solo nei notiziari o nei discorsi ufficiali: si ascoltano nei cori delle piazze, nei ritornelli delle marce, nei bassi che fanno vibrare le casse dei concerti. La Palestina è una di queste. Da decenni la sua storia non vive soltanto nei libri, nei negoziati o nei confini contesi: vive nelle canzoni. Per alcuni, la musica è intrattenimento. Per altri, memoria. In Palestina, e attorno ad essa, è diventata resistenza.
Mentre gli eventi politici si susseguivano tra occupazione, intifada, negoziati falliti e nuove escalation di violenza, c’era un altro racconto che scorreva in parallelo: quello delle voci. Voci che denunciavano, che ricordavano i villaggi perduti, che gridavano identità in un mondo che cercava di cancellarla. Voci in arabo, in inglese, in francese, in ebraico. Voci che viaggiavano oltre i checkpoint e i muri di cemento attraverso cassette, mp3, videoclip su YouTube e playlist condivise.
La Palestina, nel tempo, è diventata un tema musicale globale. Non solo per chi la vive, ma anche per chi l’ha scelta. Musicisti palestinesi hanno usato il microfono come scudo, il ritmo come barricata. Ma sorprende, o forse no, scoprire che, a loro fianco, si sono uniti artisti di mezzo mondo: rockstar leggendarie, rapper underground, collettivi reggae, orchestre sinfoniche, cori femminili, DJ dei club europei. Alcuni hanno scritto canzoni apertamente dedicate alla causa. Altri hanno portato bandiere sul palco. Altri ancora hanno scelto il silenzio: il silenzio del boicottaggio.
Questo articolo racconta proprio questo: come la musica ha sostenuto la Palestina nel tempo, e come potrebbe ancora farlo, in una forma nuova. Perché se per molti la musica è solo intrattenimento, in Palestina, e per chi la sostiene, è stata ed è tuttora linguaggio politico, atto culturale, gesto diplomatico.
Ci chiederemo: la musica può davvero essere un’arma di lotta? O può essere, finalmente, un ponte di pace? Le risposte sono molteplici, contraddittorie, vive. Ma una cosa è certa: la colonna sonora di questa storia esiste, ed è impossibile ignorarla.
Quando cantare diventa un atto politico
Per capire davvero il legame tra musica e Palestina bisogna partire da chi questa musica la suona sotto occupazione. In Palestina, esibirsi non è mai stato un gesto neutro: ogni nota suonata, ogni verso pronunciato in pubblico, è intrinsecamente carico di implicazioni politiche. In certi contesti, intonare una melodia diventa un modo per sopravvivere identitariamente; in altri, diventa addirittura un rischio. Ma è sempre una scelta.
La canzone come archivio vivente
Negli anni ’70 e ’80, quando i media internazionali preferivano ignorare la quotidianità palestinese, la musica cominciò a farsi archivio. Uno dei primi gruppi a trasformare la memoria collettiva in canzone fu Sabreen, nato a Gerusalemme nel 1980 e guidato da Said Murad. Le loro composizioni intrecciavano strumenti tradizionali arabi e arrangiamenti moderni, creando una forma di folk urbano capace di raccontare ciò che i telegiornali non filmavano: l’assenza, l’esilio, i lutti non riconosciuti, la dignità che resiste.
Brani come “Mawt al-Nar” o “Dhay’a al-Dunya” non erano inni bellici, ma pagine di diario musicate. Non urlavano, non agitavano slogan: ricordavano. E in Palestina ricordare è già un gesto rivoluzionario.
Nello stesso periodo, nei campi profughi del Libano e in Cisgiordania, vecchi canti popolari venivano reinterpretati spontaneamente con nuove parole. “Biladi”, “Mawtini”, “Yā Ṯawrat al-ʿArab” — canzoni che da inni scolastici si trasformavano in coro da corteo, da ballo di matrimonio in rituale di lutto. Era la dimostrazione che la musica non era solo una colonna sonora: era un linguaggio comunitario, un modo per dire “noi esistiamo ancora”.
Dalla poesia orale al rap: quando il beat diventa barricata
Se gli anni ’80 avevano trasformato la musica palestinese in un archivio della memoria, con l’arrivo dei Duemila quel linguaggio si è fatto più diretto, più crudo, più urbano. Una nuova generazione non voleva solo ricordare: voleva rispondere. E per farlo ha scelto il rap.
Nella città di Lydda, oggi Lod, città israeliana con una significativa popolazione araba, tre ragazzi, i fratelli Tamer e Suhell Nafar insieme a Mahmood Jreri, fondarono il collettivo DAM. Nel 2001 pubblicarono un brano destinato a fare storia: “Meen Erhabi?” -“Chi è il terrorista?”. Il titolo era già un pugno in faccia. Nel testo ribaltavano la narrazione dominante: chi è il vero violento – chi reagisce, o chi occupa?
Il video circolò prima in forma clandestina, masterizzato su CD e scambiato mano a mano nei mercati e nelle università, poi esplose online. Improvvisamente, la Palestina non aveva più bisogno di essere raccontata da giornalisti, studiosi o osservatori internazionali. Si raccontava da sola.
Attorno ai DAM si creò un’intera scena, variegata e indisciplinata. C’era Shabjdeed, voce della crew BLTNM, che mescolava trap e ironia surrealista registrando tra checkpoint e coprifuochi. C’era Muqata’a, pioniere del sampling elettronico, capace di trasformare sirene e spari in beat. C’erano i Palestinian Rapperz (PR) della Striscia di Gaza, che registravano in scantinati clandestini durante i bombardamenti, caricando le tracce online quando la connessione lo permetteva. Ogni brano era un comunicato stampa in forma musicale. Ogni barra, una dichiarazione di esistenza.
Ma forse la voce più luminosa e dolente di quella generazione è stata quella di Rim Banna. Nata a Nazareth nel 1966, ha costruito un ponte tra tradizione e contemporaneità, trasformando antiche lullabies, le ninna nanne tramandate dalle madri palestinesi, in inni di resistenza dolce. Durante la Seconda Intifada la sua voce risuonava nelle radio comunitarie e nei funerali, non per incitare alla vendetta, ma per ricordare che anche sotto assedio c’è spazio per l’amore e la speranza. Poco prima di morire, nel 2018, disse: «Il mio corpo è malato, ma la mia voce canterà finché la Palestina ne avrà bisogno.»
Il sostegno internazionale alla causa palestinese nella musica
La Palestina non canta soltanto da sola: negli ultimi decenni ha trovato alleati sulla scena musicale globale. Dal rock militante ai beat elettronici, dal rap politico al reggae anticoloniale, moltissimi artisti hanno deciso di prendere posizione pubblicamente, trasformando il palco in un luogo di lotta culturale.
Roger Waters trasforma il palco in un manifesto politico
L’esempio più eclatante resta Roger Waters, ex membro dei Pink Floyd, da anni sostenitore attivo del movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni). Nei suoi tour ha spesso proiettato messaggi come “Free Palestine” e rielaborato The Wall in chiave anti-occupazione.
E la battaglia non è solo simbolica: nelle ultime settimane ha denunciato che la sua nuova produzione di The Wall, prevista alla futuristica arena Sphere di Las Vegas, è stata annullata per pressioni della lobby filo-israeliana.
“La lobby israeliana ha cancellato la mia nuova produzione di The Wall alla Sphere di Las Vegas.”
Un caso che dimostra chiaramente quanto la solidarietà musicale verso la Palestina possa diventare scomoda a livelli altissimi.
Massive Attack e Gorillaz: elettronica e alternative in prima linea
Anche il mondo dell’elettronica e dell’alternative ha alzato la voce. I Massive Attack, pionieri del trip-hop di Bristol, non si sono limitati a dichiarazioni simboliche: hanno aderito ufficialmente al boicottaggio culturale contro Israele. Nei loro concerti, le visual non lasciano spazio ai dubbi: mappe, cifre, slogan. Ogni beat è accompagnato da un dato, ogni luce da una presa di posizione.
I Gorillaz, progetto animato di Damon Albarn, hanno più volte rifiutato inviti a esibirsi in Israele. Dal palco, Albarn ha rivolto appelli diretti ad altri musicisti: «Non normalizzate l’occupazione.» Non è musica militante per estetica: è militanza fatta con basso e cartoon.
Rage Against The Machine: rabbia e solidarietà da palco
Sul fronte rock, nessuno ha incarnato il connubio tra musica e rivolta quanto i Rage Against The Machine. Nei loro live, frasi come “End the Occupation” e “Free Palestine” campeggiano sui maxischermi tra un riff e l’altro. Il chitarrista Tom Morello lo ha detto in modo lapidario: «Se eri contro l’apartheid sudafricano, non puoi stare zitto sulla Palestina.»
La loro “Killing in the Name”, originariamente scritta contro la brutalità della polizia americana, è diventata un inno di disobbedienza globale, cantata anche nelle piazze pro-palestinesi in Europa e negli Stati Uniti.
Azioni collettive e campagne musicali per la Palestina
La solidarietà musicale verso la Palestina non si è limitata ai grandi nomi. In parallelo, negli ultimi anni è nata una vera e propria infrastruttura dal basso, fatta di eventi benefit, festival indipendenti e progetti transnazionali che hanno trasformato la musica in rete di sostegno concreto.
Eventi Pro Palestina in Italia e in Europa
n Italia la solidarietà non è rimasta confinata ai comunicati stampa o ai post simbolici: si è fatta carne, suono, volume. A Milano, Roma, Bologna e Napoli, centri sociali e club indipendenti hanno organizzato serate in cui rap, reggae, techno e folk si alternavano a interventi politici e raccolte fondi per Gaza. Il Carroponte, il CSO Lambretta, il TPO, il Corteo Studentesco di Napoli, spazi spesso relegati ai margini del mainstream, si sono trasformati in veri palchi diplomatici paralleli.
Ma la spinta non è rimasta sottotraccia. Festival strutturati come lo Sherwood Festival di Padova o alcune edizioni del Festival dell’Unità in Emilia e Toscana hanno dedicato intere giornate alla Palestina, invitando musicisti arabi ed europei sullo stesso palco. E fuori dai confini italiani la risposta è stata altrettanto forte: a Londra live rap improvvisati sono comparsi persino dentro le stazioni della metropolitana; a Parigi e Barcellona, festival hip hop e reggae hanno trasformato i maxischermi in manifesti politici.
In un’Europa spesso fredda davanti alle tragedie internazionali, la musica si è presa la libertà di essere calda. Ogni palco è diventato dichiarazione. Ogni cassa, una sirena.
Collaborazioni musicali tra artisti palestinesi e internazionali
Se i festival sono stati i luoghi visibili della solidarietà, le collaborazioni artistiche ne sono state il cuore più intimo. La band palestinese DAM ha unito la propria voce con quella di Shadia Mansour e M1 dei Dead Prez, dando vita a brani in arabo e inglese che sembrano dialoghi tra oppressioni diverse.
Nel pop indipendente, Bashar Murad ha portato la causa palestinese dentro i circuiti LGBTQ+ collaborando con Tove Lo nel brano “Ya Lel”, trasformando il desiderio di libertà in linguaggio universale.
E poi ci sono i progetti collettivi come Hip Hop for Peace, che uniscono rapper da Italia, Brasile, Francia e Cisgiordania in compilation pubblicate online senza case discografiche. Nessuna etichetta, solo file condivisi e voci che si incontrano in un punto del web.
Ogni featuring è un piccolo trattato internazionale, ma scritto in 16 barre invece che in 16 pagine.
Tra palco e silenzi forzati: quando la musica diventa scomoda
La musica è festa, ma quando incontra la Palestina diventa teatro di tensione. In questi anni, la vera domanda non è stata solo chi canta per la Palestina, ma chi viene ancora lasciato cantare. Prendere posizione oggi significa rischiare: non solo attacchi online, ma concerti annullati, ospitate rimosse, inviti che evaporano.
Il caso più simbolico è quello dell’Eurovision 2025. Prima ancora che la competizione iniziasse, si è trasformata in un campo di battaglia diplomatico: artisti europei che annunciavano il ritiro in solidarietà con la causa palestinese, altri che venivano esclusi perché troppo “schierati”, delegazioni divise tra chi temeva il boicottaggio internazionale e chi spingeva per un evento “apolitico”. Il risultato: nessuna vera neutralità, solo un nervosismo collettivo evidente. Mai come ora, partecipare, o non partecipare, è già una dichiarazione politica.
E quando non è l’Eurovision a far esplodere la contraddizione, ci pensano i festival. Primavera Sound, Glastonbury, Lollapalooza: in più di un’occasione artisti filo-palestinesi sono stati cancellati all’ultimo momento “per motivi organizzativi”. Traduzione: troppo rischioso farli salire sul palco.
Ma questa forma di censura moderna non genera silenzio. Anzi, spesso produce l’effetto opposto: petizioni, video virali, cori improvvisati dal pubblico in sostituzione dell’artista bandito. È come se la protesta si spostasse da chi doveva suonare a chi ascolta. Come se il microfono, anche quando spento, rimanesse comunque acceso.
La resistenza entra negli algoritmi: Spotify, TikTok e il fronte digitale
Quando un palco viene negato, resta internet. Se la piazza fisica è sorvegliata, la piazza digitale esplode. Negli ultimi anni, TikTok, YouTube, Instagram e Spotify sono diventati la nuova arena della resistenza sonora.
Le playlist “Free Palestine”, le raccolte “Intifada Rap” o “Gaza Resistance”, ascoltate da centinaia di migliaia di utenti, non sono compilation casuali: sono atti di identità. Chi le segue lo fa sapendo cosa sta scegliendo.
Ma il paradosso è evidente: le stesse piattaforme usate per diffondere musica di protesta vengono accusate di sostenere economicamente chi quella protesta la reprime. Nel caso di Spotify, alcune inchieste e campagne online hanno denunciato collaborazioni pubblicitarie con industrie belliche come Lockheed Martin o General Dynamics, coinvolte nella produzione di armi destinate al conflitto in Medio Oriente. Inoltre, diversi fondi finanziari legati all’azienda risultano investitori in società con rapporti diretti con l’esercito israeliano.
A questo si aggiunge un altro fronte: il controllo algoritmico. Molti artisti e attivisti segnalano shadow ban, contenuti silenziati, hashtag oscurati con la motivazione standard di “contenuto sensibile”. Il messaggio è implicito: puoi esistere finché non disturbi la linea editoriale invisibile.
Eppure, nonostante tutto, la musica riesce comunque a bucare i filtri. Su TikTok, cori come “Falastin hurra hurra” o remix arabi di “Bella Ciao” diventano audio usati da milioni di utenti nei video di protesta. Senza palchi, senza autorizzazioni, senza permessi.
La resistenza è diventata buffering.
Contraddizioni e pressioni: tra palco e schieramento
Come abbiamo visto, essere solidali con la Palestina nel mondo della musica non è un gesto neutro. Se da un lato l’ondata di sostegno internazionale ha generato concerti, campagne e collaborazioni senza precedenti, dall’altro ha fatto emergere con forza un problema cruciale: fino a che punto un artista può esporsi senza pagare un prezzo?
I casi di censura ed esclusione ormai non si contano più. Diversi artisti sono stati rimossi da festival come Primavera Sound o Glastonbury per aver espresso posizioni troppo dirette a favore della Palestina. Il punto è semplice: la musica è accettata se resta generica. Diventa scomoda quando fa nomi e cognomi. Cantare la pace va bene, ma dire “Free Palestine” può costare un contratto o un palco.
Da qui nasce un dibattito che attraversa ambienti artistici e attivisti: la musica deve essere ponte o arma? C’è chi sostiene che il compito dell’arte sia favorire il dialogo, aprire strade di riconciliazione, immaginare futuri possibili. Ma c’è chi risponde con altrettanta fermezza che non si può chiedere al popolo oppresso di cantare in toni pacati mentre subisce occupazione. A volte il grido è l’unico linguaggio possibile.
E quel grido ha preso forma in cori e brani che sono diventati simbolo delle marce pro-Palestina in tutto il mondo: “From the river to the sea”, “Falastin hurra hurra”, remix di “Bella Ciao” in arabo, versioni rap di “We Shall Overcome”, persino adattamenti di “Which Side Are You On?”. Non si tratta più solo di melodie: sono parole d’ordine. E in ogni piazza, ogni concerto, ogni manifestazione, la stessa domanda rimbalza: è musica o è lotta?
Forse è entrambe le cose. O forse, semplicemente, non è più possibile separarle.
La Palestina non chiede silenzio: chiede che il mondo continui a cantare
All’inizio di questo viaggio ci siamo posti una domanda: la musica può davvero sostenere la causa palestinese? Può essere solo uno strumento di resistenza, o può diventare anche un ponte di pace?
Dopo aver attraversato decenni di voci, cori, festival, censure e playlist clandestine, la risposta non è unica, ma è chiarissima.
Da una parte, la musica è stata scudo e megafono. Ha detto ciò che i comunicati ufficiali non osavano dire, ha trasformato ninne nanne in inni e ritornelli in manifesti. Ogni nastro registrato da Sabreen, ogni rima dei DAM, ogni chitarra urlata dai Rage Against The Machine è stata un atto politico in 4/4.
Dall’altra, la musica ha fatto qualcosa che la diplomazia non è mai riuscita a fare: ha unito chi non parlava la stessa lingua, ma suonava lo stesso accordo. Ha collegato rapper americani e ragazzini di Ramallah, DJ europei e bambini di Gaza, cantanti queer e cori popolari. Ha immaginato, anche solo per la durata di un brano, un mondo in cui palestinesi e israeliani possano condividere lo stesso palco senza barriere.
E allora la domanda finale non è se la musica può fare la differenza.
La domanda vera è: che tipo di musica vogliamo? Una musica che lotta o una musica che riconcilia? O forse dobbiamo smettere di scegliere e accettare che la libertà, prima di essere scritta nei trattati, va cantata nei cuori?
Una cosa è certa: la Palestina non chiede silenzio. Chiede che il mondo continui a cantare.
E fino a quando quelle voci risuoneranno, nei club, nei cortei o dentro un auricolare, questa storia non potrà mai essere archiviata.
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