a cura di Gianmarco Gargiulo | Tempo di lettura approssimativo: 12 minuti
It’s good to be back – Il Reunion Tour degli Oasis è l’evento live più “BIBLICAL” degli ultimi 30 anni

It’s good to be back – Il Reunion Tour degli Oasis è l’evento live più “BIBLICAL” degli ultimi 30 anni  ·  Fonte: Passione Strumenti

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Il Reunion Tour degli Oasis 2025 non è solo un ritorno sulle scene: è un evento epocale che ha riscritto la storia del rock, tra emozioni autentiche, numeri da capogiro e momenti che resteranno scolpiti nella memoria collettiva.

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Molti non hanno mai capito davvero la grandezza degli Oasis

Fino a oggi, forse, milioni di persone non hanno mai veramente compreso ciò che gli Oasis hanno significato. Per troppi, erano solo il riflesso di un’epoca passata, due fratelli eternamente in guerra, simbolo tanto del Britpop quanto delle sue rotture. Una band da Greatest Hits, da playlist nostalgiche, da racconti tramandati dai fratelli maggiori. E invece no. Gli Oasis erano – e sono – molto di più: un terremoto emotivo e sonoro che ha riscritto le regole del rock britannico, un simbolo generazionale, un fenomeno culturale che non si può ingabbiare in un solo decennio o in una copertina di NME.

Chi pensa che fossero solo due personalità difficili e arroganti, non ha capito l’anima profonda del gruppo. Gli Oasis erano rabbia e redenzione, caos e melodia, orgoglio operaio e spiritualità laica. Ogni loro brano – da Live Forever a The Masterplan – conteneva un intero universo emotivo. Erano l’urlo delle periferie del Nord dell’Inghilterra, la voce di chi non aveva mai avuto voce. E quel suono – fatto di chitarre distorte, armonie semplici e parole capaci di scavarti dentro – non è mai scomparso, ha solo atteso il suo momento per tornare.

Quel momento è arrivato nel 2025. Dopo 16 anni di silenzio, tensioni, botta e risposta a mezzo stampa, solismi e vite separate, quel terremoto è tornato a scuotere la terra con una forza ancora più potente. Il tour Oasis Live ’25 non è semplicemente una reunion: è una deflagrazione collettiva di emozioni, un fenomeno socioculturale che unisce epoche e generazioni, che travolge non solo il cuore e la testa, ma la memoria stessa di chi quegli anni li ha vissuti – o li ha solo sognati.

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Immagina allora di essere lì, a Cardiff, il 4 luglio 2025. Fa caldo, un caldo denso, sudato, quasi simbolico. I telefoni sono già alzati, pronti a catturare un istante che – lo sai – entrerà nella storia. Sessantamila persone trattengono il respiro in attesa di un segnale. E poi succede. Dal buio della scenografia emerge Liam Gallagher, con la sua inconfondibile silhouette, giacca parka e sguardo feroce. Accanto a lui, Noel, chitarra alla mano. Si prendono la mano. Un gesto che dura pochi secondi, ma ha il peso di una rivoluzione.

E lì, con voce roca, profonda, riconoscibile come un’eco familiare, Liam sussurra nel microfono: “Hello”. Una sola parola, ma sembra arrivare da un’altra epoca. Un richiamo ancestrale, come se stesse risvegliando qualcosa di dimenticato nel DNA collettivo. La folla esplode. È il segnale: l’epopea è ripartita. Oasis non è mai stato un mito che si è spento: era solo in dormienza, come un vulcano pronto a eruttare di nuovo. E adesso è il momento. Le chitarre rombano, le luci si accendono, e il tempo, per un attimo, si ferma.

I numeri che non mentono: domanda, biglietti, scala globale

Il fenomeno si traduce in cifre impressionanti: 14 milioni di richieste per accedere ai concerti di Regno Unito e Irlanda, e poco più di 1,4 milioni di biglietti disponibili nelle prime tranche. La pressione era così forte da innescare nuove date: 7 serate a Wembley, cinque tappe a Manchester Heaton Park e un’espansione mondiale verso Nord America, Asia, Australia e Sud America. Il tutto accompagnato da reselling che ha toccato punte di £6.000 per biglietto e un’indagine dell’autorità britannica sulle dinamiche di prezzo.I tour extra hanno aggiunto ulteriore pressione: ogni tappa sold‑out entro pochi minuti e un impatto economico stimato in centinaia di milioni di sterline.

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Richard Ashcroft, preludio d’anima

Prima del ritorno sulla scena, Richard Ashcroft ha riscaldato l’atmosfera: non un semplice opening act, ma un manifesto emotivo. Con Sonnet, The Drugs Don’t Work, Lucky Man e Bitter Sweet Symphony, ha rapito la platea. Quel set, breve ma potente, è stato definito un “preludio senza il quale il resto non avrebbe avuto senso” dai fan.

Let’s do the Poznam: carattere odi et amo su Cigarettes & Alcohol – 

Liam Gallagher è noto tanto per le sue provocazioni quanto per la voce ruvida da leggenda. Durante Cigarettes & Alcohol, non ha resistito: ha lanciato frecciate verso i tifosi dell’Arsenal e del Manchester United, richiamando gli hooligans e usando la “Poznan” come gesto simbolico. La folla si è girata di spalle e ha saltato all’unisono, come se tradisse una rivalità calcistica per unirsi in una danza collettiva: un gesto provocatorio ma capace di trasformare l’orgoglio calcistico in complicità rock.

È questo il vero fascino di Liam: odi et amo allo stato puro. Un mix di sfida ed affetto, voce ribelle e sguardo magnetico che non si limita a cantare—ma comanda il pubblico, lo diverte, lo sfida, lo connette.

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Ozzy sulla scena: il tributo che commuove

L’omaggio a Ozzy Osbourne a Wembley, proiettato durante Live Forever, ha rappresentato uno dei momenti più intensi e commoventi dell’intero tour. Mentre le prime note della canzone si diffondevano nell’aria, le luci si abbassavano e sul megaschermo dello stadio è apparsa la silhouette inconfondibile del “Prince of Darkness”. Un silenzio quasi religioso ha invaso l’intero Wembley Stadium, rotto solo dai primi cori sommessi di chi cantava con la voce spezzata dalla commozione. E lì, nel cuore della notte londinese, le lacrime si sono confuse con i riflettori, in un rito collettivo dove la musica è diventata memoria e celebrazione.

Ozzy non è stato solo un’icona dell’heavy metal, ma una figura chiave dell’immaginario rock britannico. Dall’epoca dei Black Sabbath fino alla sua carriera solista, ha incarnato lo spirito anarchico e profondo del rock: eccessivo, fragile, umano, immenso. Era tutto ciò che la musica può essere: urlo, confessione, liberazione. La sua morte, pochi giorni prima della data di Wembley, ha lasciato un vuoto che solo un gesto autentico poteva onorare. Liam lo sapeva, e con l’intuito emotivo che lo contraddistingue, ha scelto proprio “Live Forever” – il brano-manifesto dell’eternità – per legare il nome di Ozzy alla leggenda.

Ma non era la prima volta che Gallagher usava Live Forever come veicolo di omaggio. Negli anni, ha spesso dedicato questa canzone a John Lennon, suo eroe assoluto, icona spirituale, ispirazione eterna. Durante un concerto a Liverpool nel 2022, Liam aveva detto:

“This one’s for our John – the reason I sing, the reason I breathe”.

Quella sera, come a Wembley, Live Forever si è trasformata in un inno transgenerazionale, un pezzo che non appartiene più solo agli Oasis o agli anni ’90, ma che vive ogni volta che viene suonato come un saluto, un ricordo, una consacrazione. Le dediche a Lennon e Osbourne, distanti per stile ma uniti dal genio, dimostrano quanto la musica abbia il potere di costruire ponti oltre il tempo, oltre la morte, oltre il silenzio.

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Il passaggio successivo, quando Noel attacca il riff iniziale di Rock ’n’ Roll Star, dedicandola ad Ozzy, diventa così una trasfigurazione emotiva: da un canto eterno alla celebrazione dell’identità. È come se, dopo aver onorato chi non c’è più, la band dichiarasse con forza che il rock non è finito, non morirà mai, continuerà a brillare finché ci sarà qualcuno disposto a urlare sotto un palco.

Non è stato solo un tributo. È stato un passaggio di testimone tra giganti. Dai padri fondatori agli eredi, dai maestri del caos ai poeti urbani della working class. In quell’istante, Liam non era più solo il frontman degli Oasis: era il custode di una stirpe, il portavoce di un’eredità sacra, il tramite tra ciò che è stato e ciò che ancora sarà.

E per chi c’era, per chi ha vissuto quell’attimo, sarà impossibile dimenticare. Perché la musica può anche non salvare il mondo, ma sa benissimo come farlo ricordare.

La riconciliazione dei Gallagher: dal conflitto all’armonia

Quella frattura familiare che spezzò gli Oasis nel 2009 oggi è soltanto un ricordo sbiadito, un’eco lontana di un tempo in cui il silenzio tra due fratelli sembrava più rumoroso di qualsiasi loro canzone. Oggi, nel 2025, Liam e Noel Gallagher camminano sul palco mano nella mano, un gesto che in sé contiene tutto: la pace ritrovata, il rispetto mai davvero perduto, la consapevolezza di un’eredità comune troppo grande per essere negata. È un’immagine potentissima. Non c’è bisogno di dichiarazioni stampa, né di conferenze. Basta una mano che stringe l’altra, davanti a migliaia di persone, per dire al mondo: “Siamo tornati. Insieme.”

Questa riconciliazione non è costruita a tavolino. Si percepisce in ogni gesto, in ogni scambio di sguardi, nell’inchino che Liam fa verso Noel alla fine di ogni concerto, quasi a dirgli: “Lo so che ci siamo feriti, ma guarda cosa siamo ancora capaci di fare.” Ed è lì, in quei pochi secondi di silenzio carico di significato, che il pubblico esplode in un’ovazione che è più di un applauso: è un grazie collettivo per avere assistito a qualcosa di storico, di autentico.

Durante ogni serata del tour, arriva poi un momento in cui Noel, senza filtri, con il suo solito tono tra il provocatorio e il poetico, si avvicina al microfono e pronuncia quella frase che negli anni è diventata una sorta di mantra gallagheriano:

“True perfection has to be imperfect.”

Una frase semplice, ma carica di un’intensità disarmante. Un inno alla fragilità che ci rende umani, alla bellezza che affiora proprio dove qualcosa si è incrinato, alla magia sottile dell’imperfezione. Ogni volta che Noel la pronuncia – con quella voce ruvida e vissuta, specchio fedele del suo spirito – volge lo sguardo verso Liam. È solo un attimo, ma dentro c’è tutto: complicità non detta, affetto sedimentato, riconoscimento profondo. Nessuna ironia, nessun filtro. Solo un silenzioso patto tra due fratelli, che forse non hanno mai saputo dirsi certe cose, ma che in quella frase trovano un terreno comune. Un frammento di verità che appartiene a entrambi.

E poi arrivano i momenti corali, quelli che non si dimenticano. “Acquiesce”, “Don’t Look Back in Anger”, “Wonderwall”: non sono semplici brani, ma rituali collettivi. Mentre Liam e Noel condividono le armonie – a volte con sguardi di sfida, altre con mezzo sorriso appena accennato – il pubblico non canta: ricorda. È come se ognuno dei presenti stesse rivivendo un pezzo della propria vita, come se quelle canzoni contenessero ricordi personali, amori passati, treni persi, notti d’estate, sogni ancora vivi.

E così ogni concerto del tour Oasis Live ’25 si trasforma in una festa, una veglia laica, un raduno emotivo. Dove la nostalgia non è solo dolore per ciò che è stato, ma energia vitale che alimenta ciò che sta accadendo ora. Un ritorno, sì. Ma soprattutto una rinascita.

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Hello, hello (it’s good to be back, good to be back): un evento biblico scolpito nella storia

Il Live ’25 Tour degli Oasis è molto più di una semplice reunion. Non è solo un ritorno: è un ritorno al centro della leggenda, un rientro fragoroso nel cuore pulsante della cultura musicale britannica e mondiale. È il compimento di una storia che sembrava irrecuperabile, e che invece oggi si racconta da sola, tra numeri da capogiro – milioni di richieste per i biglietti, sold-out istantanei in tutto il mondo, arene che diventano oceani di voci – e performance che riscrivono il significato di energia dal vivo.

Ma non sono solo i numeri a definire la portata di questo evento. È la qualità rara dell’insieme: esecuzioni cariche di tensione emotiva e potenza artistica, un opening d’autore – Richard Ashcroft, più che un semplice artista di apertura, una voce spirituale che prepara il terreno al sacro – e quel mix di provocazione, fragilità e sincerità che solo un frontman come Liam Gallagher sa orchestrare. A questo si aggiunge un momento di puro incanto: il tributo ad Ozzy Osbourne, trasformato in preghiera laica sulle note eterne di Live Forever, un ponte simbolico tra leggende che hanno forgiato generazioni.

E allora no, non è solo nostalgia. È qualcosa di più profondo. Il Live ’25 Tour è diventato un rito collettivo, un’esperienza che va oltre il concerto, oltre la musica. È uno spazio sospeso in cui la distanza tra palco e platea si annulla, in cui non c’è più differenza tra artista e pubblico: c’è solo un unico coro, una sola voce, un unico respiro. È il momento in cui migliaia di persone, unite da una memoria comune e da un presente vibrante, scelgono di credere ancora nella forza redentrice del rock ‘n’ roll.

In quei minuti in cui Don’t Look Back in Anger si trasforma in preghiera collettiva, o quando Wonderwall fa tremare gli spalti come una promessa mai scaduta, la vita smette di scorrere come al solito. Si fa musica. Si fa verità. Il mondo si ferma. Ascolta. Canta.

Perché alcune band non sono solo band. Sono miti viventi, capaci di ricucire ferite personali e storiche. E oggi, con questo tour, gli Oasis dimostrano non solo di essere ancora rilevanti, ma di essere, forse, più necessari che mai.

In fondo, in un’epoca in cui tutto sembra effimero, questo tour ha riportato al centro il valore dell’autenticità, della memoria condivisa, del rock come rito collettivo. E allora sì, si può dire senza esagerazioni: è forse l’evento più importante degli ultimi 30 anni per il rock. Un momento che unisce le generazioni, rimescola le emozioni, e rimette al centro la forza rivoluzionaria della musica.

E quindi, avevano proprio ragione gli Oasis:

“It’s good to be back.”

Più che un ritorno, una rinascita.

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