Quando la musica diventa una maschera, il rischio è di non capire più chi ci sia davvero dietro. Thomas Raggi ha 24 anni, una storia già enorme sulle spalle con i Måneskin e una responsabilità: dimostrare che il rock per lui non è solo estetica, ma linguaggio. Masquerade è il primo capitolo di questa sfida personale. Un disco breve (27 minuti), pieno di ospiti giganteschi, prodotto da Tom Morello: un debutto che non cerca la prudenza, ma che al contrario prova a misurarsi con la Storia.
Il problema è che la Storia, soprattutto quella del rock, ha pretese altissime.
I fantasmi dietro la maschera
L’apertura di Getcha! è una dichiarazione d’intenti: quei power chords esplodono come un richiamo alla scuola Led Zeppelin, tra la precisione chirurgica di Chad Smith e la fame da palco dell’ospite Nic Cester. È l’ingresso più americano possibile per un artista che vuole far capire di “appartenere al club giusto”.
E per buona parte del disco, il cast è la notizia. Morello, Matt Sorum, Alex Kapranos, Sergio Pizzorno, Luke Spiller, Maxim dei Prodigy. È una celebrazione del rock internazionale… ma è anche un modo per dire al pubblico: “Guardate con chi sto giocando”.
Funziona?
Da un lato sì: Masquerade suona enorme, potente, curato.
Dall’altro, la domanda sorge spontanea: quanto di questa potenza è davvero Raggi?
Produzione internazionale e debutto al Whisky a Go Go
La presenza di Tom Morello non è una comparsata da manifesto: definisce la direzione del disco. Dove interviene, Masquerade assume un carattere decisamente hard rock contemporaneo, fatto di chitarre compatte e la sensazione che ogni brano sia nato per il palco. Morello non vuole che Raggi resti “il chitarrista dei Måneskin”, ma che ragioni da artista globale.
La stessa ambizione si vede nella presentazione al Whisky a Go Go di Hollywood, circondato da nomi dei Queens of the Stone Age, Smashing Pumpkins e Alice in Chains: un contesto che dice tutto sull’obiettivo del progetto. Masquerade non è pensato per compiacere il mercato italiano, ma per entrare nella conversazione internazionale del rock. La produzione lo sostiene alla grande: ora tocca a Raggi far emergere un’identità altrettanto riconoscibile.
Identità in costruzione: Raggi alla prova della chitarra
La chitarra resta la sua voce più autentica. Keep The Pack, con Morello e Sorum, è il momento in cui Raggi sembra mordere sul serio: riff robusti, botta ritmica, un dialogo a colpi di elettrica che restituisce quell’energia da palco che lo ha fatto emergere ai tempi dei Måneskin.
Anche The Ritz – punk, sudata, senza tregua – ha lo stesso tipo di credibilità: la cassa martella, le sei corde graffiano, e per un attimo ti dimentichi del pedigree degli ospiti. Lì, Thomas sta parlando lui, non una cover dei suoi miti.
Altrove, la maschera torna a calare.
La ballad For Nothing punta al cuore, ma resta trattenuta, più elegante che dolorosa.
Nella cover You Spin Me Round, la tecnica è ottima… ma resta una fotografia in HD di un’icona altrui.
Fallaway sperimenta tra elettronica e rock alternativo, ma manca quel cambio di prospettiva che trasformerebbe il rischio in visione.
In mezzo, Lucy e Cat Got Your Tongue offrono energia e varietà, ma spesso la citazione pesa più dell’intuizione.
Insomma: suona bene, scrive bene, è rock.
Ma la domanda è un’altra: cosa sta provando a dirci davvero?
Un artista giovane, un’eredità pesante
Oggi la conversazione sul rock è strana: c’è chi sostiene che sia morto, chi lo celebra a museo, chi prova a rianimarlo con le stesse mosse di sempre. Masquerade non vuole rivoluzionare nulla: vuole farsi accettare in una tradizione.
Questa è la sua forza e, allo stesso tempo, il suo limite evidente.
Thomas Raggi è il volto rock dei Måneskin: ha portato milioni di giovani a riscoprire le chitarre, i riff, il sudore dei palchi. Ma dove i Måneskin puntavano tutto su provocazione, corpo, teatro, qui lui sceglie un’altra strada: rispetto. Per la storia. Per i suoi idoli. Per chi il rock lo ha scritto davvero.
Eppure… rispetto non basta a scrivere una pagina nuova.
Una riflessione necessaria: se fosse americano?
C’è un punto che non possiamo ignorare.
In Italia, prima si cerca il difetto, poi – forse – si riconosce il merito.
Se Thomas fosse nato in California invece che a Roma, probabilmente Masquerade verrebbe raccontato come:
“il giovane chitarrista della next wave del rock mondiale”
Invece qui da noi si parte dal contrario:
“non sarà mica un altro che gioca a fare la rockstar?”
Siamo un Paese istericamente esterofilo: idolatriamo tutto ciò che arriva da fuori e smontiamo con precisione chirurgica ciò che nasce da noi. A Raggi, che piaccia o no, questo processo viene applicato con velocità doppia.
E allora ben venga un debutto ambizioso e pieno di rischio. Perché il vero coraggio, soprattutto in Italia, sta nel provarci.
Conclusioni: la maschera da togliere
Masquerade non è il disco che cambierà il rock. Ma non cerca nemmeno di fingere che possa farlo.
È piuttosto un rituale d’iniziazione: Thomas Raggi entra da solo nel tempio dei suoi miti e scopre che per raccontare la propria storia… dovrà smettere di indossarne i volti.
Ci sono momenti in cui la sua chitarra brilla davvero: lì intravediamo il futuro. Il resto è un punto di partenza: imperfetto, sì, ma promettente.
Se questo è solo il primo passo, la strada davanti è enorme. E speriamo che la prossima volta, al posto della maschera, ci sia il suo volto vero.
E voi, cosa ne pensate del debutto solista di Thomas Raggi?
Vi convince la sua anima più rock o vi aspettavate un volto diverso dietro la maschera?
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