Todd Rundgren è uno di quei nomi che si muovono tra mito e sperimentazione. Produttore, polistrumentista, visionario tecnologico ante litteram, ha attraversato quasi sessant’anni di musica senza mai smettere di reinventarsi. Eppure, nel pieno della rivoluzione digitale e del boom dell’intelligenza artificiale, l’artista americano sembra più scettico che mai: la musica, secondo lui, non può essere ridotta a un algoritmo.
Dalla psichedelia al digitale: un pioniere sempre un passo avanti
Chi conosce Rundgren sa che parlare con lui di tecnologia è come aprire un’enciclopedia vivente della produzione musicale. Negli anni ’70, mentre il rock sperimentava LSD e studi a otto piste, lui costruiva ponti tra suono e ingegneria, progettando studi, manipolando nastri e testando processori prima ancora che diventassero di moda.
Negli anni Duemila, quando molti colleghi difendevano l’analogico come un totem, Rundgren abbracciava il digitale senza esitazioni. È passato da Pro Tools a Reason, ha lavorato con Eventide, ha trasformato il suo laptop in un intero studio mobile. “Non ho bisogno di riempire la stanza di macchine vintage”, dice oggi. “La tecnologia serve a fare musica, non a esibirla come trofeo.”
“L’intelligenza artificiale scrive, ma non sente”
La vera provocazione arriva quando si parla di AI applicata alla musica. Rundgren ammette di usare strumenti basati sull’intelligenza artificiale per scopi tecnici — separare tracce, accordare voci, restaurare audio — ma il discorso cambia quando l’algoritmo si mette a “scrivere” canzoni.
“Finora nessun brano generato da AI mi ha convinto,” confessa. “Sembrano tutti costruiti su un unico modello estetico, come se l’intelligenza artificiale avesse un solo riferimento culturale. È un po’ come se tutto dovesse suonare come Taylor Swift.”
Dietro l’ironia c’è una riflessione profonda: l’AI è perfetta nell’analizzare pattern e armonie, ma completamente priva di intuizione emotiva. L’algoritmo può prevedere il sound che “funziona”, ma non può sapere perché un ascoltatore si emoziona. In altre parole, può imitare il cuore della musica, ma non battere al suo ritmo.
Quando la tecnologia diventa strumento, non sostituto
Nonostante la sua diffidenza verso l’AI creativa, Rundgren resta un entusiasta del progresso. Nella sua visione, la democratizzazione tecnologica è una delle conquiste più importanti degli ultimi decenni: oggi chiunque può produrre musica con un laptop e qualche plugin.
“Il digitale ha reso la produzione accessibile,” spiega. “Non serve più un budget milionario o uno studio a Los Angeles per creare qualcosa di interessante. Ma allo stesso tempo, questa libertà genera saturazione: la rete è piena di brani che non verranno mai ascoltati.”
È un paradosso tipico della nostra epoca: più possibilità significa più competizione. E in un mare di contenuti, anche una grande canzone può perdersi tra milioni di visualizzazioni di un video virale o di una tendenza TikTok.
Il confine tra ispirazione e imitazione
Il discorso tocca un punto chiave per ogni musicista contemporaneo: fino a che punto possiamo affidare la creatività alla macchina? Rundgren è convinto che l’AI possa aiutare nella parte “razionale” del lavoro — editing, mix, ottimizzazione — ma non può sostituire il momento in cui nasce un’idea, quel lampo che nessuna rete neurale può prevedere.
L’intelligenza artificiale, dice, è come uno strumento musicale: va suonato, non venerato. E qui sta la differenza tra chi la usa come mezzo e chi la vede come fine.
Il futuro della musica secondo Todd Rundgren
Mentre prosegue il suo tour britannico e prepara nuove ristampe in vinile, Rundgren guarda al futuro con lucidità: l’AI continuerà a crescere, ma il valore dell’artista resterà nel suo sguardo unico sul mondo.
“La tecnologia cambia, ma il desiderio di raccontare se stessi attraverso il suono resta immutato,” sembra dirci tra le righe. Forse, proprio in un’epoca dominata dagli algoritmi, il ruolo del musicista non è mai stato così necessario: dare un volto umano al digitale.
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