«L’abbiamo scritta in un’ora. È diventata il più grande successo della carriera di Rod.»
Carmine Appice lo dice con la calma di chi ha assistito, quasi per caso, alla nascita di un terremoto musicale. Era il 1978, in uno studio di Los Angeles, e Rod Stewart cercava un suono nuovo. Il rock era invecchiato, la disco dominava le radio, e Stewart — vestito di leopardato, capelli biondo platino e sguardo da eterno playboy — stava per compiere il passo più rischioso della sua carriera.
Il risultato si chiama Da Ya Think I’m Sexy?, e avrebbe venduto milioni di copie in tutto il mondo, scalando le classifiche di Stati Uniti, Regno Unito e mezzo pianeta. Ma anche scatenato una guerra culturale: quella tra chi amava la pista da ballo e chi non avrebbe mai perdonato a un rocker di flirtare con la disco.
Quando il rock si mise a ballare
Alla fine dei ’70, la musica era un campo di battaglia. I Bee Gees regnavano nei club, Saturday Night Fever aveva reso John Travolta un’icona, e i chitarristi blues guardavano il dancefloor con sospetto.
Rod Stewart, però, aveva sempre avuto un fiuto speciale per capire dove stava andando il vento. Reduce dai fasti rock di Every Picture Tells a Story e A Night on the Town, decise di abbracciare l’onda disco e infilarci dentro il suo charme da rocker londinese trapiantato a Hollywood.
Con lui, Carmine Appice — batterista reduce da Vanilla Fudge e Jeff Beck Group — e il tastierista Duane Hitchings. Insieme costruirono una base pulsante, un groove sexy, un basso che sembrava vibrare sotto i piedi. «Era un pezzo rock, poi ci hanno aggiunto gli archi, i synth, la produzione luccicante… ed è diventato disco», ricorda Appice.
“Traditore del rock!” — e le accuse di plagio
Il successo, però, portò con sé una valanga di critiche. I fan più puristi lo accusarono di essersi “venduto” alla disco. Nelle interviste dell’epoca, Stewart rispondeva con ironia: «Ho solo voluto far ballare la gente, che male c’è?». Ma la tempesta non finì lì. Alcuni notarono una somiglianza con Taj Mahal di Jorge Ben Jor. Rod ammise che poteva esserci stato un “plagio inconscio” e devolse le royalties in beneficenza.
Il paradosso? Quella presunta “caduta di stile” lo rese più grande di prima. Perché, piaccia o no, Da Ya Think I’m Sexy? incarnava lo spirito del tempo: edonismo, glitter, libertà e un pizzico di provocazione.
Un inno generazionale (che ancora oggi funziona)
A distanza di oltre quarant’anni, il pezzo non ha perso potenza. È stato campionato, remixato, reinterpretato. Persino il pubblico rock più duro oggi lo canta a squarciagola, come un guilty pleasure impossibile da negare. Perché, dietro la patina luccicante, Da Ya Think I’m Sexy? resta una canzone costruita con mestiere, groove e ironia.
E se oggi musicisti e producer mescolano funk, rock e dance con naturalezza, un po’ di merito va anche a quella notte del ’78 in cui un batterista newyorkese e un cantante scozzese decisero che, sì, anche il rock poteva muovere i fianchi.
L’eredità di un rischio calcolato
Rod Stewart uscì vincitore da quella scommessa. Da Ya Think I’m Sexy? non solo ridefinì la sua immagine ma aprì la strada a una nuova generazione di artisti pronti a contaminare i generi.
Per Carmine Appice, fu la prova che la musica può essere pop, sexy e potente allo stesso tempo. «È ancora un brano che paga», ha detto in un’intervista recente. «E pensare che ci abbiamo messo un’ora a scriverlo».
In fondo, forse, il segreto è tutto lì: seguire l’istinto e non aver paura di cambiare ritmo.
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