annuncio

C’è un suono che non si sente ma vibra tra le pieghe dell’algoritmo. È quello del dubbio.
Negli Stati Uniti — ma con eco immediata in Europa — Spotify si trova al centro di una class action che potrebbe ridisegnare il futuro dello streaming musicale. Al centro dell’accusa: Discovery Mode, la funzione con cui la piattaforma promette agli artisti maggiore visibilità in cambio di uno sconto sulle royalty. Una scelta, dicono i legali, che trasformerebbe la “scoperta musicale” in una vetrina a pagamento mascherata da raccomandazione personalizzata.

Per i querelanti si tratta di una “forma moderna di payola”, un trucco digitale per spingere certi brani più in alto, più spesso, più vicino alle nostre orecchie. Spotify ribatte: “Non si acquistano stream, non si comprano playlist editoriali”. Ma la domanda resta sospesa come un accordo in dissolvenza: quanto è spontaneo ciò che ascoltiamo davvero?

annuncio

Il patto invisibile tra artista e algoritmo

Discovery Mode nasce nel 2020 come esperimento. L’idea è semplice: gli artisti possono segnalare alcune tracce come “prioritarie” nei suggerimenti automatici (Radio, Autoplay, mix “scoperte”), accettando in cambio una riduzione delle royalty su quei brani.
Un do ut des algoritmico: tu rinunci a qualche centesimo, io ti offro più esposizione.

Sulla carta, sembra una forma di pubblicità soft e meritocratica. Nella pratica, però, introduce un principio pericoloso: pagare per essere ascoltati di più, anche se non si tratta di soldi diretti ma di sconti su guadagni futuri.
È qui che nasce il parallelo con la payola, la pratica radiofonica (e illegale) degli anni ’50 e ’60, quando etichette e promoter pagavano le stazioni per trasmettere certi dischi più spesso, drogando l’airplay e l’opinione pubblica.

Se allora il vinile girava a colpi di banconote, oggi gira a colpi di codice. L’influenza si compra in silenzio, sotto la patina del “consigliato per te”.

L’accusa: una scoperta che non scopre nulla

La class action, intentata da Genevieve Capolongo in rappresentanza degli utenti statunitensi, accusa Spotify di ingannare i consumatori facendoli credere che le playlist e i brani suggeriti derivino dai loro gusti reali.
Invece — sostengono i legali — quelle raccomandazioni sarebbero parzialmente pilotate da accordi economici con artisti e label che aderiscono a Discovery Mode.

Nel testo della causa si parla di “false rappresentazioni” e di un “sistema opaco” che altera la concorrenza artistica, danneggiando chi non può o non vuole ridurre le proprie royalty per ottenere visibilità.
Un effetto domino che colpisce soprattutto musicisti indipendenti, quelli che più avevano creduto nella promessa dello streaming come terreno neutrale, meritocratico, democratico.

Spotify, dal canto suo, respinge le accuse come “infondate” e ribadisce che “l’artista è libero di scegliere”, che il Discovery Mode “non influisce sulle playlist editoriali curate dal team interno” e che “nessuno compra stream”.
Ma anche ammesso che tutto sia legale, resta la questione più scomoda: è giusto?

annuncio

La difesa: libertà di scelta o condizionamento invisibile?

“Discovery Mode è uno strumento di marketing opzionale”, ripete Spotify in ogni comunicato.
Ma la questione è più sottile. Se l’unico modo per competere è accettare di guadagnare meno, dove finisce la libertà?
In un mercato già dominato da major e super-artist, la possibilità di “comprare visibilità” anche in forma indiretta sposta ulteriormente l’equilibrio a sfavore dei piccoli.

Per i musicisti emergenti, Discovery Mode è una trappola elegante: sembra un aiuto, ma rischia di diventare un altro filtro da superare. Per gli ascoltatori, invece, rappresenta l’ennesima distorsione percettiva: un feed musicale sempre più indistinguibile tra gusto personale e spinta commerciale.

Una questione di fiducia

In fondo, tutto si riduce a questo: fiducia. Quando apriamo Spotify, diamo per scontato che ciò che ascoltiamo sia il riflesso dei nostri gusti, delle nostre abitudini, delle nostre emozioni.
Scoprire che dietro quelle scelte ci sia — anche solo in parte — un incentivo economico, cambia la prospettiva. Non è un crimine, forse. Ma è una crepa nel rapporto emotivo tra piattaforma e utente, tra artista e ascoltatore.

Perché la musica, per quanto digitale, resta un atto di fiducia: ci lasciamo guidare, ci affidiamo al suono. Se quel suono diventa marketing, l’incanto si rompe.

L’opinione: il prezzo della scoperta

È qui che il caso Discovery Mode diventa qualcosa di più di una causa legale. È uno specchio del nostro tempo. Viviamo in un’epoca in cui ogni gesto online — dallo scroll allo skip — è una transazione invisibile. E la musica, l’arte più libera di tutte, rischia di diventare la prossima vittima di questo meccanismo.

La domanda da porsi non è se Discovery Mode sia illegale, ma se sia giusto che la scoperta musicale venga monetizzata fino all’ultimo bit. Perché se ogni suono può essere spinto, ogni artista può essere filtrato, ogni playlist può essere programmata, allora dove resta lo spazio per la casualità, per la scoperta autentica, per il momento in cui una canzone ti sorprende davvero?

Il rischio non è solo per gli artisti, ma per noi ascoltatori. Ci stiamo abituando a un mondo in cui l’algoritmo decide tutto, persino cosa ci emoziona. E se la musica smette di sorprenderci, smette anche di essere viva.

Ulteriori Informazioni:

Susanna Staiano
HOT
or not?

Come valuti questo articolo?

Valutazione: Tuo: | ø:
Spotify Discovery Mode
annuncio

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *