a cura di Francesco Di Mauro | Tempo di lettura approssimativo: 5 minuti
Questa band non esiste! L’AI sta conquistando Spotify senza che te ne accorga - Velvet Sundown

Questa band non esiste! L’AI sta conquistando Spotify senza che te ne accorga  ·  Fonte: Passione Strumenti

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I Velvet Sundown sono il fenomeno musicale del momento: una band che non esiste, creata (almeno in parte) dall’intelligenza artificiale, capace di superare il milione di ascoltatori mensili su Spotify. Una storia che mette in discussione l’idea stessa di autenticità nella musica e solleva interrogativi etici sui confini tra arte, algoritmo e marketing virale. Ma chi si nasconde dietro i Velvet Sundown? E soprattutto: che tipo di musica producono questi fantasmi digitali?

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Chi sono i Velvet Sundown? La storia di una band che non esiste

Fino a poche settimane fa, nessuno aveva mai sentito nominare i Velvet Sundown. Nessun concerto dal vivo, nessun video in studio, nessuna intervista reale. Eppure, all’improvviso, questo presunto quartetto psych-rock anni ’70 ha iniziato a comparire nelle playlist più ascoltate di Spotify: “chill”, “coffeehouse rock”, “indie morning”. Da lì, il salto virale è stato questione di giorni: oggi vantano oltre un milione di ascoltatori mensili e una fama globale costruita sulla nebbia del mistero.

Dichiaratamente (ma non troppo) i Velvet Sundown sono una band sintetica, nata da una combinazione di direzione creativa umana e tecnologie di generazione AI come Suno. Non è stato un segreto rivelato subito: inizialmente il gruppo aveva negato ogni coinvolgimento dell’intelligenza artificiale. Solo dopo inchieste e pressioni mediatiche, il portavoce (o presunto tale) Andrew Frelon ha ammesso che buona parte della musica è stata prodotta usando tool generativi. E se fosse tutta una “trollata”? Forse sì: i Velvet Sundown si definiscono apertamente una provocazione artistica, uno specchio che riflette le contraddizioni dell’industria musicale contemporanea.

Che tipo di musica fanno i Velvet Sundown

Ma cosa suonano, in pratica, i Velvet Sundown? Loro stessi parlano di “una fusione di texture psichedeliche anni ’70, alt pop cinematografico e soul analogico”. Atmosfere oniriche, chitarre riverberate, linee vocali calde ma generiche, testi malinconici che odorano di nostalgia prefabbricata. Canzoni come Dust on the Wind e Drift Beyond the Flame sembrano uscite da una compilation di soft rock vintage, perfette per playlist di ascolto passivo. E qui sta il punto: i Velvet Sundown non vogliono necessariamente essere “amati” come una vera band. Vogliono essere ascoltati mentre fai altro, vogliono finire in sottofondo. Funzionano perché sono innocui, perché non disturbano.

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Secondo alcuni critici, è proprio questa la loro forza: propongono un sound innocuo e familiare, studiato per sedurre gli algoritmi di raccomandazione di Spotify. Non a caso, molte delle playlist che li hanno spinti in alto sono gestite da pochi account, alimentando il sospetto di manipolazioni e boost artificiali.

Spotify, playlist e intelligenza artificiale: un connubio senza regole

Il caso Velvet Sundown accende i riflettori su un tema caldo: le piattaforme di streaming, Spotify in testa, non hanno regole chiare per etichettare la musica generata da AI. Deezer, ad esempio, sta introducendo tag specifici per segnalare i contenuti sintetici, ma Spotify non obbliga a nessuna disclosure. Questo vuoto normativo permette alle “band fantasma” di proliferare indisturbate, sfruttando gli algoritmi di raccomandazione basati su pattern di ascolto e somiglianze sonore.

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Come ha dichiarato Glenn McDonald, ex data alchemist di Spotify, «gli ascoltatori falsi erano un problema più grande della musica falsa, ora forse è il contrario». E in effetti, se nessuno può verificare se dietro un brano ci sia un artista reale o un’intelligenza artificiale, cosa cambia davvero per l’utente medio?

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Una provocazione artistica o un gigantesco trucco di marketing?

Dietro ai Velvet Sundown c’è anche un certo gusto per la beffa. Andrew Frelon, lo stesso portavoce che ha svelato il legame con l’AI, ha parlato apertamente di “trollata”. Una provocazione, ispirata a performance artistiche come quella dei Leeds 13, un collettivo studentesco che ingannò i media inscenando una vacanza di lusso mai avvenuta.

In questa logica, i Velvet Sundown sono l’incarnazione perfetta di un’epoca dove il confine tra vero e falso diventa liquido. La band è un deep fake musicale che invita a riflettere: cosa cambia se una canzone ci emoziona, anche se è stata composta da un algoritmo? E ancora: possiamo parlare di arte quando manca la componente umana di esperienza, sofferenza, vita reale?

La nuova estetica del “vibe”: meno storie, più algoritmi

Quello che spaventa (e affascina) del fenomeno Velvet Sundown è che funziona perché intercetta i bisogni del pubblico contemporaneo. In un’epoca di streaming per ascolto passivo, la musica non deve necessariamente raccontare qualcosa di profondo. Deve creare un’atmosfera, un “vibe”.

E l’AI è perfetta per questo: può generare infinite variazioni di brani coerenti, costruiti su metriche di gradimento, inseriti in playlist tematiche e spinti verso un pubblico che non chiede altro che un accompagnamento musicale prevedibile. Il rischio? Che la musica perda la sua funzione narrativa, emotiva, sovversiva.

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Aspetti etici: creatività, paternità e remunerazione

Dietro la patina vintage dei Velvet Sundown si nasconde una questione spinosa: come tutelare gli artisti umani in un contesto dove la musica generativa può produrre contenuti a basso costo e in quantità illimitata? Se la playlist “Lo-fi beats” può essere riempita da migliaia di tracce AI indistinguibili da quelle reali, che senso ha per un musicista investire tempo e anima nella sua arte?

Serve trasparenza: etichette chiare, linee guida condivise, regole per garantire remunerazioni eque. Serve anche una riflessione culturale: siamo pronti a un mondo in cui la canzone che ci fa piangere in macchina potrebbe essere frutto di un algoritmo privo di emozioni?

Conclusioni: il futuro della musica tra umano e macchina

I Velvet Sundown sono un campanello d’allarme. Non è solo la storia di una “band fantasma” virale su Spotify, ma il simbolo di una trasformazione più ampia: l’intelligenza artificiale non è più un esperimento, è già dentro l’industria musicale.

Non tutto, però, è negativo. L’AI può diventare uno strumento straordinario se messa al servizio della creatività umana. Può ampliare possibilità sonore, generare spunti, contaminare generi. Ma serve una regia consapevole, regole etiche, un patto culturale tra chi crea e chi ascolta.

I Velvet Sundown, in fondo, non sono altro che uno specchio: ci costringono a chiederci quanto davvero conti per noi la verità dietro una canzone. E se siamo disposti a sacrificare la storia, l’imperfezione e l’emozione reale, in cambio di un sound “perfetto” generato da linee di codice.

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